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Come definisci la felicità, il piacere e la gioia?

Tempo fa organizzai a Roma degli incontri basati sulla domanda “Come faccio ad essere felice?

Per me è una domanda centrale per dare una direzione ed un senso all’umano esistere.

Mi resi conto, tuttavia, che sussiste sia una grande confusione sulla definizione  di “felicità”, sia quasi un’incredulità  (come se fosse una fede!)  nell’esistenza di questo stato d’animo, che per me è un modo di porsi nella realtà.

Le persone neanche se lo chiedono se sono felici e considerano la felicità superflua nell’esistenza, molto più delle vacanze estive o del vestito firmato o della dieta.

Il massimo a cui, generalmente, le persone aspirano è la serenità, ovvero una tranquillità oziosa, in cui crogiolarsi senza desideri ed aspirazioni, come su un’amaca, come, idealmente, nel grembo materno.

D’altronde, io stessa per decenni ho attribuito alla felicità un valore quasi di ideale utopico, come di un orizzonte che più ti avvicini e più si allontana.

Nondimeno, nel corso della vita personale e professionale sono andata via via sperimentando e discriminando una gamma infinita di sensazioni e stati d’animo, che col tempo hanno preso, da un confuso magma affettivo, forme autonome e chiaramente discriminabili.

Dunque, ho potuto verificare come il piacere sia, solitamente, il prodotto di un desiderio realizzato, del raggiungimento di un traguardo, della soddisfazione di un bisogno.

Ovvero, il piacere si genera attraverso un’azione, più o meno consapevole e si esaurisce  in un certo lasso di tempo.

Il piacere è uno stato d’animo individuale, soggettivo, perché i desideri sono personali e anche i bisogni in un certo senso.

Infatti, a parità di appetito, una persona preferirà sapori intensi, un’altra delicati, un’altra preferirà spizzicare, un’altra ancora abbuffarsi.

Questa distinzione vale per tutti i tipi di appetiti e di bisogni, dal momento che il piacere sorge dalla soddisfazione di una necessità.

Il problema è che spesso la rincorsa ad un piacere sempre più prolungato provoca dipendenza e assuefazione all’oggetto di piacere, che, divenendo l’unico obiettivo dell’esistenza, assume una centralità rigida, ambivalente, che ostacola, paradossalmente, il raggiungimento della soddisfazione, resa amara, e quindi del piacere.

Diversamente, la felicità ha un percorso indipendente. Al contrario di ciò che si pensa, è uno stato d’animo autonomo, uno dei più autonomi, dal momento che si origina nel mondo interiore e prescinde dall’oggetto.

La felicità, pur accendendosi nella contingenza, non si esaurisce con essa. Essa diviene, se coltivata, un atteggiamento mentale, un approccio alla realtà, che prescinde dalla sgradevolezza delle circostanze.

La felicità sgorga da un senso trovato, dal significato attribuito agli eventi,  dal fluire del tempo e delle esperienze.

Non è una méta, ma è il viaggio stesso, quando riusciamo ad essere centrati in noi completamente, che non significa egocentrismo, ma consapevolezza del dentro e del fuori.

La felicità non prescinde dalle circostanze, ma non ne è schiava.

Mentre il piacere non è riattivato dal ricordo della sazietà, la felicità si riattiva anche nella memoria, laddove il vissuto sia stato autenticamente pieno, consapevole, lucido e limpido, privo di qualsiasi retrogusto.

Anch’essa, tuttavia, è un vissuto individuale, che non necessita di socializzazione, sebbene necessiti di un percorso per apprenderne il  sapore e protrarne il gusto.

Infine la gioia.

Della gioia è ben più complesso parlare.

La gioia è un’emozione condivisa , che nasce proprio nella condivisione. Non se ne intuisce il sapore, né lo si può alterare.

Fluisce da una fonte profonda , dal nucleo intimo, nell’incantesimo magico dell’intimità con l’altro, , che non è solo amore sessuale, ma profondo riconoscimento reciproco, assoluto dialogo nel silenzio o incontro nelle parole.

La gioia è l’arcobaleno che ti sorprende dopo un temporale misto di sole ed esplode dentro in zampilli festosi e mai terrificanti.

In conclusione, il piacere è facilmente accessibile e si accontenta di oggetti per accendersi. Talvolta illude e sempre ha senso in sé, senza possibilità di trascendere, di andare oltre.

La felicità, dal canto suo, è l’occhiale azzurro limpido con il quale si sta nella realtà, nelle cose che si fanno, nelle emozioni che si vivono. Non ha bisogno di un oggetto per manifestarsi, bensì di consapevolezza di essere pienamente in sé e di poter potrarla, custodirla e portarla con sé quasi come un amuleto contro la paura.

La gioia, infine, è , oserei dire, un’esperienza mistica, evanescente come la rugiada sui fiori del mattino.

E’ inconsistente, forse, ma indimenticabile nel momento in cui ci si lascia andare alla sua musica.

E tu sei più orientato al piacere, alla gioia o alla felicità? Fammi conoscere i tuoi pensieri in merito!

Daniela Troiani