Episodio 176 – Che relazione hai con il dolore?

Episodio 176 – Che relazione hai con il dolore?

Con Roberta Cazzaniga, osteopata e fisioterapista, affrontiamo l’argomento analizzandolo non soltanto da un punto di vista psicologico, ma anche dal punto di vista fisico, approfondendone la natura psicosomatica e la relazione tra la mente e il corpo nella gestione del dolore. Il dolore non è qualcosa di uniforme, ma ha tante sfaccettature, cioè esistono tanti tipi di dolore. Il dolore ha molteplici forme, ma per cultura tendiamo ad appiattire le sfumature del dolore e arriviamo a considerare che tutti i dolori sono uguali. Quando entriamo in contatto con il dolore vogliamo che passi. E anche l’atteggiamento complessivo della società è quello di voler eliminare qualsiasi forma di sofferenza perché vuole avere benessere. Infatti la persona è considerata sana se non prova dolore. In realtà non può essere sempre così. Tra i diversi tipi di dolore possiamo riscontrarne uno per cui, nonostante tutti i tessuti siano intatti, sentiamo comunque il dolore. Si tratta di una alterazione della plasticità neuronale. È un dolore in assenza di danni strutturali, ma comunque un dolore fisico. Il dolore fisico è una percezione corporea che abbiamo, legata ad una sensazione fisica. Successivamente la elaboriamo con la mente, e in qualche modo, più o meno consapevole, noi decidiamo come vivere quella esperienza. Ci sentiamo sbagliati perché proviamo dolore? Sentiamo di aver subito un ingiustizia e proviamo rabbia? Vogliamo scacciarlo e basta? Vogliamo risolvere? Vogliamo solo trovare un colpevole? La sofferenza è diversa dal dolore: è il dolore sul dolore. E si può legare al dolore emotivo, psicologico. Molta della nostra sofferenza è collegata proprio al modo con cui decidiamo di affrontare il nostro dolore. Quanto siamo consapevoli dei nostri bisogni nell’esperienza di dolore che viviamo? Quanto siamo in contatto con le nostre emozioni? Quali sono le nostre convinzioni rispetto alla situazione di dolore e sofferenza che stiamo vivendo? Dove è focalizzata la nostra attenzione? Ecco che, ancora una volta, con la meccanica delle relazioni si possono approfondire tutti questi aspetti necessari a venire a capo delle nostre sofferenze. Se non abbiamo cognizione dei bisogni, delle nostre emozioni, delle convinzioni e di dove è la nostra attenzione, sarà difficile riuscire a gestire il dolore. Anche lì ci vuole la responsabilità di decidere di fare un lavoro sul proprio dolore e su ciò che ad esso si ricollega conseguenzialmente: la sofferenza psicologica e la sofferenza relazionale. Il primo passaggio è quello di mostrare il dolore, imparare ad esplicitare ciò che viviamo, assumendoci anche il rischio di incomprensione, di mancata empatia da parte dell’altro, di solitudine. Partendo dal riconoscimento dei nostri bisogni, possiamo quindi mostrarli all’altro e fare ciò che possiamo concretamente.
Episodio 175 – 4 modi per farsi rispettare

Episodio 175 – 4 modi per farsi rispettare

Il termine rispetto etimologicamente deriva dal latino ‘respicere’ e può essere tradotto con guardare indietro. Possiamo dare due interpretazioni a questo “guardare indietro”: per aver rispetto dobbiamo sapere guardarci indietro, ma può voler dire anche sguardo che ci torna dall’altro, ovvero come l’altro mi guarda. Per comprendere cosa sia per noi il rispetto dobbiamo partire dal tipo di linguaggio che associamo al concetto di rispetto, soprattutto ai verbi che usiamo per parlare di rispetto. Esigere rispetto, pretendere, ottenere, guadagnare, dare, concedere il rispetto: questo linguaggio è figlio di una cultura deformata al livello relazionale. Il linguaggio poi diventa un modo di pensare e di agire. Rispetto non è sottomissione, non è paura. Non è un oggetto da scambiare da dare o ricevere. Allora cosa è? Qual è il linguaggio giusto da utilizzare quando parliamo di rispetto? È creare. Creare rispetto. È un valore relazionale che si crea, appunto, in una relazione. Come si crea una relazione di rispetto? 4 modi per farsi rispettare, o meglio, per creare rispetto: 1) costruisco trasparenza: quando sono congruente e trasparente creo rispetto nella relazione: conosco i miei bisogni, ma per conoscerli bisogna che io mi ascolti. 2) Mi rispetto e rispetto l’altro: se non ti rispetti gli altri si sentiranno autorizzati ad avere atteggiamenti poco rispettosi. Come posso rispettarmi? Innanzitutto imparando a conoscermi, imparando ad amarmi, a prendermi cura di me stesso. 3) Mostro i miei bisogni all’altro: nella relazione indago i miei bisogni e quelli dell’altro, e non li giudico, li rispetto. Come mostriamo i nostri bisogni? Li mostriamo o li lasciamo intuire? Che linguaggio utilizziamo? Con la pretesa? Con la lamentela? Con l’accusa? Come accogliamo i bisogni dell’altro? 4) Stabilisco confini chiari: se un confine non è chiaro, in che modo si può rispettarlo? È impossibile rispettare un confine quando non è ben definito. È necessario, nelle relazioni, chiarire i confini a noi stessi e chiarirli con l’altro. E saperli difendere. Poiché non sappiamo definire in modo chiaro i nostri confini e a volte non sappiamo comunicarli, rischiamo di incorrere in questi due errori: 1) pretendo: accumulo rabbia senza esprimere i miei bisogni o stabilire i miei confini e quindi arrivo al punto di pretendere il rispetto. 2) Mendico: accumulo tristezza, cercando di ottenere il rispetto compiacendo l’altro. Entrambe queste strategie sono fallimentari, poiché essendo il rispetto un bene relazionale, può essere soltanto costruito, non preteso o mendicato.
Episodio 174 – Famiglia d’origine: come trovare l’equilibrio?

Episodio 174 – Famiglia d’origine: come trovare l’equilibrio?

Approfondiamo il tema sulle relazioni con la famiglia d’origine. Ci sono nodi da sciogliere legati alla famiglia di origine; consapevolezze da acquisire; decisioni da prendere. È un cammino di crescita personale che ognuno è chiamato a fare, per raggiungere un equilibrio tra il bisogno di appartenenza e il distacco necessario dalla propria famiglia d’origine. Si tratta, fondamentalmente, di un lavoro interno, personale, da portare poi nelle relazioni con gli altri. Perché avvenga un processo di individuazione è necessario un distacco dalla “cultura” della famiglia di origine. Noi nasciamo in una determinata famiglia, con una specifica cultura ed è necessario comprendere che quella cultura non è “il giusto” in assoluto. Riprendendo la distinzione di Minuchin, psichiatra e psicoterapeuta argentino, possiamo fare una distinzione del tipo di famiglia di appartenenza tra famiglia invischiata e famiglia disimpegnata. La famiglia invischiata è quel tipo di famiglia in cui non ci sono confini, in cui lo stato d’animo di uno corrisponde allo stato d’animo di tutti, in cui non si tengono “le porte chiuse”. Il vissuto è un vissuto collettivo. Può produrre disturbi nell’area psicosomatica e dei disturbi alimentari. La famiglia disimpegnata è quella famiglia in cui non ci sono vere relazioni di cura, vi è una convivenza “per lavoro”, in cui non ci sono relazioni nutrienti. Potrebbero dare origine a comportamenti antisociali. In una famiglia sana si alternano momenti e fasi diverse, vi è fluidità e cambiamento. Il problema c’è quando l’appartenenza ad uno dei due tipi di famiglia è strutturale. Il primo passo fondamentale è riconoscere, ascoltando il corpo e le proprie emozioni, la propria tipologia di famiglia e darsi il permesso di iniziare un lavoro personale di individuazione, di conoscenza di noi stessi, dei nostri meccanismi interni, delle resistenze e difese che si alzano per il dolore legato alla nostra storia, o meglio all’interpretazione che noi diamo della nostra storia. Quanto sei disposto a lavorare con te stesso, a comprenderti? A superare le tue difese bypassando l’ego?  
Episodio 173 – IO, nella famiglia d’origine: il distacco necessario

Episodio 173 – IO, nella famiglia d’origine: il distacco necessario

Dove hanno origine i primi condizionamenti? I primi condizionamenti hanno origine proprio nella famiglia d’origine, in quanto luogo in cui viviamo e in cui riceviamo le prime indicazioni rispetto alle relazioni. Le relazioni, infatti, sono molto più potenti della genetica. Tutto ciò che ci viene automatico è frutto di condizionamenti, a partire proprio dalla famiglia. La famiglia di origine è ciò da cui partiamo. Che vuol dire svincolarsi dalla propria famiglia? Vuol dire diventare se stessi e spiccare il volo. La prima reazione, per quanto inconscia, è la paura: distaccarci dalle persone a cui vogliamo bene, che fanno parte del nostro primo nido, del nucleo in cui impariamo come voler bene, anche se a volte in maniera distorta, ci genera paura. Pensiamo che voler bene significa restare attaccati. Distaccarsi viene vissuto un po’ come un tradimento. Ma svincolarsi dalla famiglia di origine è necessario e significa iniziare un processo di individuazione. Riprendendo il modello di Bowen, possiamo approfondire la relazione con la nostra famiglia di origine concentrandoci su tre concetti fondamentali: *Tre generazioni: quando parliamo di famiglia di origine, generalmente crediamo che sia composta dalla famiglia “stretta” (mamma, papà e fratelli e sorelle); Bowen, invece, parla di tre generazioni. La famiglia non è composta dalle sole persone in vita , ma anche dalle persone delle generazioni precedenti, che influenzano ancora oggi la nostra vita nel presente. *Nella cultura familiare ci sono leggende, storie e miti familiari, che entrano a far parte della nostra psiche in modo molto forte. Tra etichettamenti e destino di quello che diventeremo. Questi miti, queste leggende sono il modo in cui i nostri genitori ci hanno tramandato la cultura delle loro famiglie che loro stessi hanno ricevuto in eredità dalle loro famiglie. *Massa dell’io familiare: ognuno di noi quando entra in iterazioni di un certo tipo con la famiglia di origine regredisce. Non siamo in grado di controllare le nostre reazioni. Annulliamo la nostra individualità ed entriamo nella massa dell’io familiare che ci risucchia dentro e non abbiamo più possibilità di scelta, siamo solo reattivi. Non ne siamo consapevoli e agiamo ciò che non conosciamo. Ciò che iniziamo a conoscere non lo agiamo più, perché ciò che è inconscio ci controlla. Ma quando diventa consapevole siamo noi a controllarlo. All’interno della nostra massa dell’io indifferenziato, noi siamo parte di un ingranaggio e funzioniamo meccanicamente in un certo modo. Il passaggio fondamentale nel processo di individuazione è iniziare a narrare la nostra storia in modo da scioglierne i nodi e prendere consapevolezza del fatto che noi siamo allo stesso tempo unici e parte di una famiglia, di una discendenza. Abbiamo un nome (la nostra unicità) e un cognome (la nostra appartenenza). L’individuazione è riconoscere tutto ciò, dando il giusto peso ad appartenenza e libertà, appartenere restando liberi. Non è rinnegare la propria famiglia, ma permettere alle parti di essere differenziate. Come possiamo fare questo concretamente? Possiamo dedicarci alla pratica, seguendo questi passaggi: * Guardare la famiglia come osservatore esterno. * Scrivere ciò che succede senza giudizio. * Notare il nostro ruolo e darci il permesso di essere altro. A che punto sei nel tuo processo di individuazione? Quali sono le difficoltà che maggiormente incontri?
Episodio 172 – Lasciare andare: domande e risposte

Episodio 172 – Lasciare andare: domande e risposte

In questo video abbiamo approfondito l’argomento del lasciare andare rispondendo alle domande. Ci sono due domande fondamentali che ruotano intorno al lasciare andare: Come riempire il vuoto? Come affrontare la paura di lasciare andare? Il lasciare andare è fortemente legato alla libertà, nostra e degli altri. Sostanzialmente è un processo che avviene dentro di noi e che non necessariamente deve coinvolgere l’altra persona. Tutto questo processo gira intorno alla paura: lasciare andare genera paura. E si arriva a voler difendere la propria immagine, il proprio ego. Ogni passo del lasciare andare è strettamente legato ad una particolare paura. Affrontando le paure, accogliendole e divenendone consapevoli, possiamo arrivare a comprendere che ciò che lasciamo andare è davvero nostro per sempre; ciò a cui restiamo attaccati, invece, ci controlla.
Episodio 172 – Lasciare andare: domande e risposte

Episodio 171- Lasciare andare per imparare ad accogliere

5 cose da fare per lasciare andare Cosa vuol dire lasciare andare? Quali sono i passaggi necessari a lasciare andare? Perché lasciare andare? Lasciar andare richiede calma, apertura e disponibilità. Generalmente lasciare andare produce dentro di noi la paura per qualcosa che non conosciamo. Lasciare andare vuol dire anche fare spazio. Vorremmo qualcosa di nuovo, ma non abbiamo spazio interno, perché siamo aggrappati a quello che abbiamo. Per questo non riusciamo a lasciare andare. Tutto ciò che non è più utile, funzionale, che non ci fa bene, che è di ingombro, occupa solo spazio ed è fondamentale imparare a lasciarlo andare. Può capitare che ci ripetiamo che non ci riusciamo; ma qui entra in gioco la nostra volontà: lasciar andare richiede un atto di volontà da parte nostra. Quali sono i passaggi per imparare a lasciare andare? 1) Riconoscere gli attaccamenti: se non sappiamo quali sono i nostri attaccamenti, non sappiamo cosa lasciare andare; sentiamo la sensazione di pesantezza, di insoddisfazione, debolezza, ci sentiamo sfiancati, ma non sappiamo cosa è che ci fa stare così. Per rintracciare i nostri attaccamenti, chiediamoci: a cosa sto restando attaccato? A cosa penso spesso? Su cosa la mia mente va in automatico? Quali sono i pensieri che emergono automatici durante la giornata? 2) Rintracciare il vantaggio: Noi siamo fatti di parti, qual è la parte che vuole lasciare andare? Quali sono invece le altre parti che non vogliono lasciare andare? Molte parti di noi si aggrappano a qualcuno o qualcosa, perché ogni parte vede in un determinato modo e le parti di noi che non vogliono mollare, vedono un vantaggio nel non farlo. Chiediamoci, dunque, quali sono i nostri vantaggi nel non mollare? Restare attaccato alla storia, alla persona, al pensiero o alla convinzione che vantaggio mi da? Restare attaccati ci da sicurezza e lasciare andare richiede responsabilità, rischio, paura e noi tendiamo sempre al beneficio, a quello che ci sembra una cosa buona per noi. 3) Fare spazio per accogliere: la paura nel mollare è paura del vuoto. Modificando questa visione, cioè se lascio andare sento il vuoto, noi ci focalizziamo solo sulla mancanza di qualcosa, sullo spazio da riempire. E il vuoto ci fa paura: resta un buco. Modificare il linguaggio dicendo “faccio spazio”, “lascio andare per fare spazio, per accogliere” ci fa concentrare sul nuovo, sull’accogliere la novità. Cambia completamente la visione e la percezione delle cose. Chiediamoci: che cosa è ingombrante dentro di me? Cosa è che oggi è inutile a cui dedico energia, pensieri? 4) Imparare ad affidarci: abbiamo paura perché abbiamo il bisogno di controllare. Non riusciamo ad affidarci alla vita. Per lasciare andare è necessario fare un atto di fede, provare fiducia. Fare piccole cose senza avere il controllo di tutto. 5) Accettare e accogliere: spesso l’attaccamento a qualcosa o qualcuno è perché non riusciamo ad accettare che è passata, che una cosa è finita. Non riusciamo ad accettare che l’impermanenza è una legge fondamentale della vita: tutto cambia. Come si fa ad accettare? Accettare è un atto di volontà. Accettare si fa accettando. Accettare vuol dire accontentarsi, nel senso di essere contento, di farsi contento di ciò che c’è.